Girando per i Musei Capitolini, tra i tanti capolavori che si incontrano, tra Imperatori romani, Papi e Cardinali, può capitare di fermarsi davanti ad un busto inaspettato: una testa di Medusa realizzata da Gianlorenzo Bernini intorno alla prima metà del Seicento.
Il busto è stato una sorta di fotografia quando la foto non era possibile, un ritratto tridimensionale che doveva racchiudere i tratti salienti della persona rappresentata, inserirla in una tipologia morale e sociale, e forse anche per questo tendere a non rappresentare niente di intimo né troppo emotivo, ma lasciare ai posteri una visione immobile ed eternante della figura.
Così il busto della Medusa diventa una sorpresa, tra tanti uomini e donne reali troviamo un essere mitologico, antico quasi quanto la storia dell’uomo, potente nella sua storia di personaggio mostruoso e distruttivo, ma anche protettivo se si riesce a rivolgere il suo sguardo contro il nemico. La mitologia, infatti, racconta come la Medusa potesse pietrificare gli uomini con lo sguardo e la sua morte per mano di un eroe, Perseo, che le taglia la testa con uno stratagemma.
Bernini non sceglie come ispirazione la storia conosciuta da tutti, ma una poesia di Giovan Battista Marino, che invece immagina il mostro cadere, per una banale distrazione, vittima del suo stesso riflesso allo specchio.
E’ un’immagine cruenta, Medusa che si guarda allo specchio e si trasforma senza volerlo, uccisa dal suo stesso sguardo, colta nell’attimo di coscienza e dolore, il movimento prima dell’eterna immobilità in cui la cattura la pietra.
Ma la bellezza di questo piccolo gioiello perduto tra i gioielli è anche la sua unicità, il suo essere un’opera personale, nata senza un committente, in un momento in cui l’arte nasceva per essere venduta.
E’ indubbio che in questa opera racconti un suo pensiero, che sia una considerazione “professionale” o strettamente emotiva.
Per alcuni, un esercizio di stile che vuole testimoniare e ribadire il valore della bravura tecnica nell’arte scultorea ed insieme nobilitarla, come Bernini volesse mostrare a tutti la sua abilità nel realizzare il trasformarsi della carne in pietra, o forse come si eterna un attimo di dolore.
E’ innegabile che la mostruosità dei capelli della mortale tra le Gorgoni, fatti di serpenti, diventa un esempio di maestria nelle spire, le quali creano un movimento raggelato con cui si confronta lo sguardo ormai vuoto eppure ancora triste, cosciente e quasi rammaricato.
Ma è anche evidente che questa Medusa si spoglia del valore apotropaico o aggressivo, per raccontarci, inaspettatamente, la presa di coscienza di un errore ineluttabile, quella sensazione di rassegnazione che segue subito la sorpresa quando ci si accorge di aver fatto qualcosa di sconsiderato e irreparabile.
E viene il dubbio che non fosse una semplice prova di stile, quello che voleva fare l’artista, ma esprimere un pensiero che gli apparteneva, magari riferito al difficile momento che aveva vissuto con la demolizione del suo campanile a San Pietro, costruito male, costruito con errori, che aveva pagato tutti, perdendo incarichi e prestigio.
Forse ci dicono anche questo, quegli occhi senza pupille che si contraggono in una smorfia sconsolata: di fare sempre attenzione alle nostre azioni, perché la debolezza è nascosta anche nel più forte e perché ci sono cose che se rotte o perdute non si possono aggiustare o ritrovare.
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