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Lamento. Ancora


Nota importante per il lettore: Pezzo a altissimo tasso di lamento. Lo leggete a vostro rischio e pericolo quindi non vi lamentate, pure voi, se mi lamento.

La vita è stata proprio matrigna con me dandomi i metatarsi lunghi. Questo e un’innata pigrizia, oltre alla forma geneticamente sfrontata della donna mediterranea, ovvero la tendenza del mio sedere a fare capoluogo di regione appena decido di abbandonarmi alle gozzoviglie, rendono la mia vita un costante, sommesso, lamento su me stessa.

E si, perché quando – ovunque tu vada a finire – sei sempre circondata da tacchi 12, gambe lunghe, capelli lunghi e perfettamente in piega, una domanda te la fai e ti dai anche una risposta: il problema non sono loro, sei per forza tu.

Tutte hanno i capelli lunghi? Io irrimediabilmente li ho tagliati cortissimi. Tutte si fanno la piega? Io manco li asciugo. La scarpa d’ordinanza è il decolté? Io ho lo stivale militare (per la questione appunto dei metatarsi lunghi e del dolore coi tacchi). E sorvolo su smalto, lunghezza unghie, trucco e tagli delle gonne.

La situazione poi, sta peggiorando ma mano che invecchio, perché i miei quarantatré anni inizio a sentirli tutti. Mi rendo conto che almeno una volta, avevo la giovinezza che mi dava un paio di punti in più nella classifica, grazie a quel colorito roseo e quello sguardo allegro che ora è finito senza appello dietro le lenti multifocali.

Più ingrasso e invecchio più mi sento fuori posto mentre guardo la gente intorno a me con la sensazione che loro vivano nella serie tv Suits mentre io in The Walking Dead.

Eppure deve esserci una soluzione, che non è l’accettazione di se stessi e degli altri, sarebbe troppo facile così, ci vorrebbe qualcosa di più drastico e violento, tipo la decisione di ritirarsi in un eremo tibetano e dedicarsi alle arti marziali. Solo che in Tibet fa freddo e se mi concedessi un’alimentazione solo a base di riso il mio intestino ne risentirebbe troppo.

Ma la cosa che proprio mi spezza il cuore è che io non lo faccio apposta. Non so che cosa guidi le mie decisioni eppure, anche se non vorrei, ogni volta che le prendo sono sempre opposte a quelle di tutti quelli che mi circondano. E il dramma è che me ne accorgo sempre dopo. Così quello che potrebbe passare per spocchioso snobbismo da intellettuale è in realtà una drammatica incapacità di adattamento e mimetizzazione. Se fossi stata nella Savana sarei diventata l’aperitivo di un leone nel giro di un amen.

Eppure mi sforzo, ve lo garantisco, mi sforzo quando apro l’armadio e guardo i miei vestiti dicendo oggi potrei mettere quella gonna là, quando vado dal parrucchiere e penso: questa volta non taglierò i capelli, oppure entro in un negozio di scarpe diretta verso un decolté nero che potrebbe andare bene in ogni occasione. Ma esco sempre con i pantaloni, i capelli corti e gli stivaletti alla caviglia.

Forse sono maledetta. Penso una cosa e ne faccio succedere un’altra, questo spiegherebbe molte cose, tipo che ingrasso anche non volendo. Oppure che non mi piace Suits.

Quindi vengo a voi, pubblico giudice, per confessare che è colpa mia. È colpa mia se mi sento sempre come una brocca antica in una discoteca, se non sono soddisfatta del mio aspetto che giudico sempre peggiore di quello di chi mi circonda, se ho delle aspettative troppo alte per le mie gambe e se non accetto che il lento deterioramento cognitivo e fisico sarà la prima componente dell’evoluzione della mia vita nel futuro.

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