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La visita obbligatoria


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La mia ipocondria ormai è famosa in tutto il mondo. Sappiamo tutti che io odio i dottori e sto sempre male anche per questo. Sappiamo tutti che posso elencare sintomi insignificanti collegandoli a malattie gravissime, mortali e o invalidanti.

E nonostante tutti lo sappiano, anche qui in  ufficio, mi costringono a fare la visita medica appunto obbligatoria per adempiere ai dettami della 626.

Lo fanno con una e-mail nella quale mi chiedono che giorno voglio andare, e già là iniziamo malissimo, visto che il giorno che scelgo è l’unico già tutto occupato. Poi, sempre nella e-mail, mi dicono l’indirizzo, un posto che per me è l’equivalente delle Paludi Morte del Signore degli Anelli, e non mi danno alcuna speranza in merito alla possibilità di evitare questa cosa, appunto perché obbligatoria.

Così, dopo un po’ di tentennamenti, rispondo, trovo un giorno tra i sei elencati e decido di non pensarci più fino al momento in cui non potrò non pensarci, ovvero a quindici minuti dall’appuntamento.

E ci riesco quasi, anche se ogni giorno qualcuno va a fare la visita e torna idoneo e sorridente, come avesse fatto una gita fuoriporta, quindi decido che devo essere ottimista.

Arrivato il giorno fatidico, decido di andare in macchina con una collega che mi offre generosamente un passaggio, così partiamo un po’ prima per il traffico. Mentre ci dirigiamo alla magica smart che ci porterà nelle Paludi vedo un cielo nero all’orizzonte che non sembra foriero di buone novelle ed infatti, appena partite, inizia un temporale.

E per temporale intendo secchiate sul tettino di vetro della piccola smart, traffico impazzito, tuoni, fulmini e saette, un clima adatto alle suddette Paludi insomma. Ma io sono ottimista. Infatti, a parte la pioggia, i tassisti cafoni, i pedoni che pretendono di attraversare dove non dovrebbero, arriviamo alla strada indicata sull’e-mail, mentre  piove come nel trailer del film Noha. Ma sono ottimista, tanto che riusciamo a parcheggiare a solo tre numeri civici prima del nostro. Certo, quando scendo dalla macchina e inizio a muovermi tra una secchiata d’acqua e l’altra mi rendo conto che sono circa trecento metri, perché ci sono degli immensi giardini tra un numero civico e l’altro, ma io ho gli stivali, la mia collega le ballerine, ancora una volta posso dire che l’ottimismo paga.

Arrivate al numero civico, seguiamo le indicazioni e troviamo questa porta a vetri con l’indicazione “Medicina del lavoro”, la mia arguzia mi fa pensare che troveremo i nostri brillanti medici dietro quell’ingresso, quindi apro ed armeggio con l’ombrello per chiuderlo. Finisco così di bagnare quel poco che ancora ero riuscita a tenere asciutto, e vedo altri colleghi arrivati prima di noi, seduti un atrio grande e vuoto, su sedie scomode e con la compagnia di un distributore di acqua e snack.

Tra le cose che ho paura di usare e che mi affascinano insieme ci sono questi distributori, resto a contemplarli non capendo mai dove mettere le monete, dove e quando premere, mettendoci tanto di quel tempo che dietro di me si fa la fila. Se riesco a compiere le procedure poi l’oggetto comprato rimane incastrato nello sportello. Sempre che non mi abbia solo fregato le monete e basta. Quindi guardo di sfuggita il distributore e mi dirigo al banco di ricevimento, dove una gentile signorina mi chiede la tessera sanitaria.

Ecco, nella professionale e-mail che mi costringeva ad andare là  non si citavano documenti da portare e se non avessi un portafogli che mi piace da morire e che quindi rimpinzo di roba per poterlo prendere in ogni occasione, non so come avrei fatto.  Superato questo possibile ostacolo, compilato il modulo sbagliando naturalmente le righe dove dovevo scrivere l’indirizzo e facendomi riconoscere come quella con le cancellature sulla prima pagina, mi accomodo sulla sedia vicino alla porta insieme alla compagna di avventure.

Entrambe estraiamo un libro, lei un bel romanzo, io “Roma Massonica” (lo so, non riesco a finirlo), mentre intorno c’erano opuscoli sulla prevenzione sul lavoro, su come fare impresa e su altre cose che non ho capito. Entriamo quindi in un silenzio da sala d’aspetto mentre i minuti scorrono, le pagine del libro aumentano e mi rendo conto che non chiamano nessuno. Ma tutti siamo come avvolti da questo  silenzio imbottito, che spezza all’improvviso l’accensione del motore del frigo del distributore che, nel bel mezzo di quel momento mistico, fa tremare le porte di vetro con un rumore di generatore avviato.

Nonostante si faccia tutti un salto, assumiamo un’aria impassibile e riprendiamo le nostre attività. Dopo circa venti minuti mi rendo conto che non ce la farò a procedere oltre col libro, la simbologia massonica non è così immediata altrimenti non sarebbe una società segreta, e mi lascio prendere dal nuovo giochino che ho sul telefono. Lo ammetto, ogni tanto vado in fissa per qualche giochino di successo, sono stata vittima di ruzzle, poi di candy crush, ma visto che sono tirchia, non mi compro vite o cose del genere, quindi gioco sempre con i limiti delle opzioni gratuite. In queste condizioni ci vuole poco a morire 5 volte di seguito. E proprio quando sto all’ultima vita si sente dalla stanza del medico una voce femminile che dice forte “Dentro, dentro, dentro” e poi “Fuori, fuori, fuori”.

Tutti fanno finta di ignorare le voci, l’aria era già gelida, a quel punto c’erano gli iceberg che si muovevamo sul pavimento e i nidi di pinguino dietro il distributore automatico.

Dopo pochi minuti vediamo uscire un signore e grazie a Dio iniziano le visite per la nostra società.  Ci vorrà una mezz’ora ancora, e poi la porta del medico si aprirà anche per me. Per la precisione una dottoressa bionda con uno smalto improbabile e molto sorridente, sorrido pure io, sono ottimista, ricordiamocelo.

Inizia così a compilare i vari moduli, mi fa le domande di rito che snocciola come una macchinetta: malattie diverse da quelle dell’infanzia? No. Fuma?No. Beve superalcolici? Astemia. Beve ai pasti? Sono Astemia. Beve caffè? No. Alza gli occhi e mi guarda sconsolata, anche lei condivide l’opinione generale sulla tristezza della mia vita. Poi si tira indietro sulla sedia e mi chiede: Come si sente?

Sono stati tre secondi lunghissimi. Nella mia testa sono passate almeno sei risposte:

  1. Saranno fatti miei?

  2. So che si muore ogni giorno e quindi come potrei stare bene?

  3. Se sapesse dove lavoro non mi farebbe questa domanda

  4. Posso avere la domanda di riserva?

  5. Male

  6. Bene.

In questi tre secondi ho valutato le conseguenze di ogni risposta, poi ho optato per quella più improbabile che mi avrebbe salvato da ulteriori accertamenti: “bene”.

Ed avevo ragione, è passata alla visita oculistica, facendomi guardare dentro un apparecchietto anche se avevo le lenti a contatto. Dopo un po’ di lettura di lettere inutili, aver constatato che non ero daltonica, io almeno, lei non ero sicura visto il colore dello smalto che aveva, e aver constatato che ci vedevo, mi indica il lettino per auscultare e vedere se ho l’ernia del disco.

Ora facciamo un passo indietro alla mattina. Ci sono delle mattine che non so cosa mettermi, di solito sono tutte quelle dal lunedì al venerdì, e per una che veste in maniera monotona come me, tutto grigio, nero, blu, pantalone, maglione, potrebbe sembrare anche un po’ patologico. Tant’è che quella mattina, appunto perché ottimista, avevo il dubbio che piovesse, quindi avevo deciso di mettere gli stivali. Ma gli stivali stavano bene con il pantalone aderente, ed il pantalone aderente mi scopriva la pancia, visto che ho la pancia delicata ho messo un body.

Bene, ho dovuto in pratica spogliarmi perché doveva auscultarmi e io ero, di fatto, sigillata, inoltre doveva farmi fare delle prove di movimenti che con quel pantalone non sarei mai stata capace di fare. Ancora una volta la scelta dell’abbigliamento non si è dimostrata il mio forte.

E mentre mi chiedeva se mi faceva male la schiena ancora una volta ho mentito, invece di rispondere che avevo iniziato a soffrirne dopo un’ora seduta sulle loro sedie nella sala d’aspetto ho risposto con il più facile no.

In conclusione, per chiuderla qui perché è stata abbastanza lunga di suo, la visita ha certificato che: ci vedo, ho un buon carattere, sto bene e ho un bello smalto (lo ha detto lei, ed è stata la cosa che mi ha preoccupato più di tutte).

Pazienti come me ce ne vorrebbe di più, sai come funzionerebbe meglio la Sanità in Italia?

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