particolare Quartiere Coppedè - Foto Luca Sorrentino
Nella sua lunga carriera l’architetto Gino Coppedè ha lasciato l’impronta del suo stile un po’ in tutta l’Italia, da Genova alla Toscana alla Sicilia, ma soprattutto a Roma, Capitale d’Italia e Capitale di grandi appalti architettonici, dove ha realizzato un progetto sistematico che ha permesso di vedere, attraverso l’insieme di più edifici, la linea generale del suo senso estetico, ovvero il Quartiere Coppedè, nella zona Salario-Trieste. Ma se questo progetto è stato realizzato ed è stato talmente importante da prendere il suo nome, ce ne sono stati altri che non sono stati più fortunati, restando sulla carta e nel mondo delle idee.
Tra questi un progetto per la creazione di una nuova stazione centrale e la sistemazione edilizia della zona circostante. Questo lavoro, redatto in collaborazione con l’Ingegner Ugolotti nel 1922, venne esposto al grande pubblico dal gennaio all’aprile 1923 nelle vetrine de La Rinascente, allora in Piazza Colonna.
Il progetto nasceva dal presupposto chela Stazione Terminifosse insufficiente alle esigenze di una Roma Moderna, ormai Capitale d’Italia da cinquant’anni. Il respiro dell’idea prendeva spunto anche dal clima di forte espansione edilizia che stava vivendo la Capitale post-unitaria e nel quale la Società Edilizia Moderna, ovvero la grande impresa edilizia a cui faceva capo Coppedè, cercava spazi di inserimento per una grande e proficua operazione imprenditoriale.
In questa occasione il nostro architetto proponeva di postare a Porta Maggiore la stazione così da liberare circa 350.000 mq destinati alla progettazione di un nuovo e grandioso quartiere che avrebbe potuto contenere oltre 60.000 abitanti. Il progetto si muoveva su un asse principale costituito dal Viale delle Nazioni, lungo60 metrie che per1600 metridalla nuova stazione avrebbe condotto a piazza dei Cinquecento. Questo asse, fiancheggiato da alberi e fabbricati definiti “lussuosi”, sarebbe stato aperto a metà del percorso da una piazza circolare dominata da un arco che sarebbe stato “della pace” o “di trionfo” quale ricordo monumentale della “nostra Vittoria che a tutto’ora manca in Roma ma che è nel cuore di tutti”. Un duplice richiamo alla romanità classica e alla fascista.
Il progetto prevedeva una risistemazione anche dell’area delle Terme di Diocleziano, che sarebbero state liberate da “ogni uso indecoroso”. Il quartiere sarebbe stato organizzato con vari tipi edilizi ed il nuovo edificio della stazione avrebbe compreso una “metropolitana” che l’avrebbe collegata con il centro di Roma.
Un altro progetto avveniristico e forse per questo irrealizzato, Coppedè lo disegnò per la piazza della Fontana di Trevi nel 1925. Egli prevedeva la demolizione del fronte delle case prospiscenti la fontana di Trevi e la costruzione di un palazzo monumentale con un porticato sormontato da una terrazza balaustrata con statue dalla forte matrice classica. Il tessuto del quartiere sarebbe poi stato modificato dalla creazione di un’ampia arteria che avrebbe sostituito Vicolo dei Modelli e dallo sventramento del tessuto edilizio retrostante la chiesa di S.S. Vincenzo e Anastasio.
Questi due progetti rappresentano il curioso adattamento che Gino Coppedè aveva attuato all’estetica romana del periodo. Egli infatti si sforzò di inserire nel suo immaginario iconografico elementi marcatamente classici che permettessero di rimodellare la città seguendo una linea di gigantismo di ascendenza imperiale che forse intuiva come la linea architettonica del momento. Troviamo quindi un interessante sforzo di adattamento a quelli che saranno i nuovi linguaggi dettati dalla cultura fascista e che, causa la morte nel 1927, non hanno trovato un’attuazione pratica ben definita, tranne forse nel suo ultimo palazzo, costruito nell’anno della morte, all’inizio di via Veneto. Qui possiamo vedere come Coppedè modifichi i suoi stilemi introducendo linee rigide ed elementi classici, ma non rinunciando alla colonna dai piedi di leone ed al portale con l’elemento fantastico. Così assistiamo ad una sorta di compromesso e mimetizzazione delle immagini, ovvero l’architetto si appropria di forme che non gli appartengono ma non riesce a rinunciare del tutto alla sua identità e si concede ancora di usare qualche piccolo “marchio di fabbrica” che ne salvi la dignità artistica. I progetti irrealizzati rappresentano così non solo un “non finito” materiale, ma anche delle idee, perché non ci permettono di definire quanto Coppedè avesse deciso di modificare realmente del suo stile, a cosa avrebbe rinunciato pur di lavorare, e come sarebbe cresciuta la sua progettazione nel nuovo clima politico italiano, lontano dai temi risorgimentali in cui era cresciuto.
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